La “compensatio lucri cum damno” tra l’indennizzo spettante al danneggiato in forza di polizza infortuni e il risarcimento del danno da fatto illecito. Nessun margine per il cumulo?
“L’assicurazione contro gli infortuni non mortali costituisce un’assicurazione contro i danni ed è soggetta al principio indennitario, in virtù del quale l’indennizzo non può mai eccedere il danno effettivamente patito. Ne consegue che il risarcimento dovuto alla vittima di lesioni personali deve essere diminuito dell’importo percepito a titolo di indennizzo da parte del proprio assicuratore privato contro gli infortuni” (Sez. 3, Sentenza n. 13233 del 11/06/2014).
Secondo la suddetta sentenza della Suprema Corte, il principio indennitario non sarebbe derogabile, perché principio di ordine pubblico.
“Nell’assicurazione contro i danni, il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall’ammontare del danno risarcibile l’importo dell’indennità che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto, in quanto detta indennità è erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dall’assicurato in conseguenza del verificarsi dell’evento dannoso ed essa soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito” (Sez. U, Sentenza n. 12565 del 22/05/2018).
Nonostante il tenore di queste due massime, la risposta (negativa) alla domanda proposta nel titolo potrebbe non essere scontata.
1. Le Sezioni Unite precisarono, al punto 5 della motivazione, di non aver voluto enunciare un principio di diritto, né rispondere al quesito generale, pur oggetto dell’ordinanza di rimessione, se la compensatio potesse “operare come regola generale del diritto civile ovvero in relazione soltanto a determinate fattispecie” e se nella liquidazione del danno dovesse “tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito”, dichiarando, piuttosto, di avere esaminato il quesito “nei limiti della sua rilevanza: fino al punto, cioè, in cui esso rappresenta un presupposto o una premessa sistematica indispensabile per l’enunciazione, a risoluzione del contrasto di giurisprudenza, di un principio di diritto legato all’orizzonte di attesa della fattispecie concreta”. Le S.U. vollero, infatti, precisare come fosse loro affidata “non l’enunciazione di principi generali e astratti o di verità dogmatiche sul diritto, ma la soluzione di questioni di principio di valenza nomofilattica pur sempre riferibili alle specificità del singolo caso della vita … perché anche là dove la Corte di cassazione è chiamata ad enunciare un principio di diritto nell’interesse della legge, si tratta tuttavia del principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi nella risoluzione della specifica controversia”.
2. Le SS.UU. confermarono inoltre, che la sentenza n. 13233/14 della 3^ Sezione, aveva aderito a un orientamento minoritario e contrario all’indirizzo tradizionalmente seguito nella giurisprudenza della Corte, che aveva avuto per lungo tempo applicazione incontrastata ed era stato avallato anche dalle Sezioni Unite con la sentenza 13 marzo 1987, n. 2639 (parte motiva, ivi § 4.1).
3. La controversia oggetto della pronuncia n. 12565/18 riguardava la pretesa di Aerolinee Itavia S.p.A. di vedersi risarcito, da parte del Ministero II.TT., il danno patito per la perdita di un aeromobile (si tratta, com’è noto, dell’abbattimento del DC9 precipitato il 27 giugno del 1980 nelle acque di Ustica); pretesa che era stata respinta dalla Corte d’Appello di Roma, perché la società attrice aveva incassato un indennizzo assicurativo da parte di Assitalia, d’importo maggiore a quello del valore dell’aeromobile.
La controversia rimessa all’esame delle SS.UU., in punto al (negato) cumulo tra risarcimento dell’illecito e indennizzo assicurativo, riguardava dunque, pacificamente, un’ipotesi di assicurazione contro i danni, disciplinata dagli artt. 1904-1918 cod. civ. e non un’assicurazione contro gli infortuni.
4. Con riferimento alla sentenza n. 13233/14 si osserva che sembra controvertibile che l’assicurazione contro gli infortuni rientri nel ramo delle assicurazioni contro i danni, piuttosto che nell’ambito delle assicurazioni sulla vita, perché l’impossibilità di attribuire un valore economico determinato alla persona umana, rispetto alla quale non è configurabile un puro e semplice contratto di indennità come efficace strumento di riparazione del danno prodottosi (un soggetto di diritto, non può mai diventarne “oggetto”), rende estraneo all’assicurazione contro gli infortuni il principio indennitario (cfr. 2336/66, 2915/68, 1205/75, 1833/77, 5775/79, 4851/80, 2307/94, 9388/94 e 6062/98).
Non sarebbe quindi possibile, alla stregua dell’art. 1908 cod. civ., attribuire alla persona umana un “determinato valore” ante sinistro, da confrontare col valore “delle cose” al momento dell’accertamento del danno e nemmeno vi sarebbe spazio, sempre con riguardo al bene salute, per ritenere invalida ai sensi dell’art. 1909 cod. civ., l’assicurazione che sia stata contratta per una somma che ecceda “il valore della cosa assicurata”. Di qui, l’inapplicabilità del principio indennitario, previsto dall’art. 1905 cod. civ.
5. Anche la più risalente sentenza n. 5119/02 delle S.U., che ritenne applicabile l’art. 1910 cod. civ. alle polizze private contro gli infortuni, dopo avere premesso che “La giurisprudenza numericamente prevalente di questa S.C. … tende ad inquadrare l’assicurazione privata contro gli infortuni tra le assicurazioni sulla vita», aveva puntualizzato che “nella giurisprudenza di questa S.C. non si rinviene una contrapposizione tra indirizzi che affermano, da un lato, l’integrale applicazione all’assicurazione contro gli infortuni delle norme sull’assicurazione sulla vita, e, d’altro lato, la completa soggezione alla disciplina dell’assicurazione contro i danni, ma piuttosto un’analitica ricerca, ad opera delle singole decisioni, della compatibilità con l’assicurazione contro gli infortuni di norme proprie di entrambi i tipi legalmente disciplinati”.
In buona sostanza, non si può affermare a priori la piena applicabilità, ai sinistri contro gli infortuni, della disciplina delle assicurazioni contro i danni o di quelle sulla vita; l’assicurazione contro gli infortuni, infatti, ha una causa mista, proprio perché attiene alla valutazione della persona umana.
6. Anche l’enunciata valenza pubblicistica del principio indennitario, da cui discenderebbe la sua inderogabilità, presta il fianco ad alcune obiezioni:
– secondo i principi generali, non è plausibile che l’ordine pubblico economico interno non potrebbe reggersi senza il principio indennitario e, conseguentemente, che il sistema capitalistico crollerebbe a causa del cumulo di risarcimento e indennizzo;
– al principio indennitario dovrebbe essere negata valenza pubblicistica anche per la sua collocazione nel Libro Quarto, Titolo III, Capo XX del Codice Civile: l’art. 1932 non contempla, infatti, l’art. 1905 tra le norme inderogabili.
7. Da ultimo, si osserva che nella prassi del settore assicurativo, le polizze infortuni prevedono normalmente la rinuncia delle assicurazioni alla surroga nei confronti del responsabile ed è noto che tale rinuncia ha proprio il fine di consentire il cumulo tra indennizzo e risarcimento (e quindi, fuor di metafora, di vendere più polizze).
Posto che le Sezioni Unite non si pronunciarono sulla liceità della clausola di surroga, alla luce delle considerazioni appena espresse a proposito dell’art. 1905 cod. civ. (nemmeno l’art. 1916 è contemplato dall’art. 1932), ben potrebbe ritenersi che almeno nei casi in cui la surrogazione non sia prevista, il cumulo sarebbe legittimo quale espressione di un “favor” per il danneggiato, avendo le parti contrattuali manifestato, con tale rinuncia, la volontà di discostarsi dal principio indennitario.